Ci spostiamo in Paolo Sarpi, la China Town di Milano. Qui tutto ricorda l’Oriente ed in particolare la Cina. Dalle insegne dei negozi, ai profumi speziati che si respirano lungo la via. Ci attende Leonardo, 35 anni, proveniente da una regione centrale della Cina con 100 milioni di persone.
Vive in Italia da 14 anni ed oggi gestisce il centro culturale cinese. Un piccolo cortile si apre davanti a noi appena varcato l’ingresso del portone al civico 26.

«Benvenuti in Cina»

Ai nostri occhi tutto ricorda l’Oriente: dai monili ai fiori, persino gli ombrelli colorati e le lanterne che formano un soffitto variopinto. «Eppure, gli abitanti della zona sono in prevalenza
italiani – racconta Leonardo – qui solo i commercianti sono cinesi. Il 60% infatti è italiano, il 40% cinese. Il centro culturale che conta 150 iscritti vuole trasmettere ai piccoli cinesi nati e
cresciuti a Milano le tradizioni orientali, oltre che la lingua madre».

Il senso della globalizzazione

Mentre parliamo arriva un gruppo di studenti. «Come vedete anche i bambini italiani frequentano il centro, sono quelli a cui le famiglie vogliono far apprendere il cinese. Il motivo? Forse perché hanno compreso il senso della globalizzazione e vogliono dare ai ragazzi una chance in più per il futuro
– spiega in un italiano un po’ approssimativo Leonardo -. Questo progetto ha subito un arresto negli ultimi anni perché sono pochissimi oggi i cinesi che arrivano in Italia». Una notizia che ci coglie in contropiede, ma che effettivamente spiega il perché oggi siano più gli italiani ad imparare il cinese. Il futuro per loro potrebbe essere in Cina, nel frattempo prendono dimestichezza con una lingua piuttosto complessa e con le usanze e le tradizioni. Un processo che permette di fatto l’integrazione tra le due comunità. «Qui, ad esempio, si impara la danza del dragone e quando organizziamo spettacoli cerchiamo sempre di inserire artisti sia cinesi sia italiani nel tentativo di superare le distanze culturali».

Italia Cina sempre più vicine

Vent’anni fa si pensava che fossero chiusi, che non cercassero l’integrazione, oggi non è così e lo dimostrano le associazioni presenti nelle università (alla Bocconi, ad esempio, ce ne sono due) e la metamorfosi avuta dai commercianti. «Un tempo c’erano solo empori all’ingrosso di prodotti cinesi, poi
le leggi sono cambiate e sono nati i primi negozi al dettaglio, che oggi sono meta di tanti italiani». Un cambio di passo che ha dato vita a parecchie iniziative di aggregazione: dal celebre Capodanno cinese, che in media portava, prima del Covid, in via Paolo Sarpi oltre 100 mila persone; fino al festival della
cultura e dell’arte italiana e cinese che si svolge nel mese di ottobre. «La maggior parte del nostro pubblico è italiano – puntualizza il giovane – questo sarà un periodo fortunato, il maiale simboleggia ricchezza, riposo e tranquillità».

Troppa burocrazia e poca sicurezza

Eppure, le difficoltà non mancano, come ci racconta Leonardo. «In Italia c’è troppa burocrazia e leggi poco chiare – lamenta – poi non ci sono telecamere di sicurezza. Da noi in Cina sono
in ogni angolo, questo permette di individuare i responsabili della maggior parte dei furti, in Italia questo non c’è. Salvini ha fatto una cosa giusta, deve mandare via gli immigrati irregolari, non è razzismo questo, anche noi siamo stranieri, ma quando siamo arrivati abbiamo cercato di integrarci nel miglior modo possibile, andando a scuola, all’università. Mentre invece ci sono altri stranieri che non cercano l’integrazione, non vogliono andare a scuola e lavorare, ma pensano di vivere di espedienti. Una soluzione che non può che danneggiare l’Italia. In Cina chi commette reati non può emigrare. Forse
un giorno anche in Italia riusciranno ad entrare solo immigrati regolari».

Di Federica Bosco

Giornalista professionista e scrittrice, responsabile e coordinatrice del blog Obiettivo Milano

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