L’androne di una palazzina buia, non lontano dalla stazione centrale, è la sua casa da dieci anni. Un cartone il suo letto, da quando ha perso tutto e si è ritrovato in strada. Lavoro, casa, macchina, una caduta libera che ha profondamente segnato questo uomo di 56 anni. Claudio, milanese di Precotto, vive tra gli ultimi. Non è straniero e neppure disadattato, non ha problemi psichiatrici e non è uscito di casa dopo la separazione dalla moglie. Semplicemente ha perso il lavoro e alle soglie dei 50 anni non è riuscito più a ritrovare un’occupazione. Non ha vizi, solo una sigaretta ogni tanto quando qualche volontario gliela offre con una tazza di tè caldo. Lo incontriamo una sera di febbraio, il Coronavirus occupa già le cronache nazionali, la paura inizia a serpeggiare tra la gente, e anche noi adottiamo tutte le precauzioni del caso. Ci avviciniamo con la mascherina.  Il timore di trovare dinnanzi a noi un uomo arrabbiato con la vita è grande, ma Claudio ci invita con una battuta ironica ad accomodarci nella sua dimora.  <<Siete i benvenuti – ci accoglie con un sorriso, mentre il suo sguardo attento ci studia. – vivo qui da oltre dieci anni, da quando la ditta per cui lavoravo ha chiuso  – aggiunge come  se volesse giustificare il suo stato – non amo questa condizione, ma ormai sono abituato, o meglio rassegnato –  lo invito a rallentare e riavvolgere il nastro per ripercorrere la sua vita dal momento in cui è precipitato negli abissi e non è più riuscito a risalire. – l’officina meccanica in cui lavoravo come tornitore è fallita. Ho provato con le agenzie interinali a ricollocarmi, ma ho solo la terza media. Non ho un titolo di studio. Ho provato di tutto pur di lavorare – alza le spalle e lo sguardo verso il cielo, mentre la voce inizia a tremare  –  Per ora sono qui, nel quartiere di sempre vicino alla chiesa che diventa il mio rifugio nei momenti più difficili. La salute non manca, ma se qualcuno vuole adottarmi io sono disponibile – riesce anche ad essere ironico Claudio nella sua disperazione – gli amici non mi mancano, sono italiani come me, gli stranieri che vivono in strada sono solo conoscenti – tiene a puntualizzare.

Cerco di capire in che modo la Consulta potrebbe aiutarlo. Lui mi anticipa <<potrei occuparmi di spostamento merci e bancali. – Claudio è alto ha un fisico asciutto e atletico, potrebbe essere una risorsa per chi fa traslochi, supermercati o per le pulizie dei palazzi. – Posso fare anche il meccanico – aggiunge – l’officina potrebbe fare al caso mio, ho lavorato per anni in quel settore>>.

La chiesa di Sant’Antonio è la meta di quasi tutti i giorni per un piatto caldo, mentre condivide la sua disperazione con un amico. <<sono quarant’anni che ci conosciamo. Questa è la nostra casa – ci mostra un giaciglio con due materassi posti sul marciapiede uno difronte l’altro e qualche coperta per ripararsi dal freddo. <<I parenti ci sarebbero – ammette a bassa voce mentre ringrazia i volontari che gli consegnano una coperta termica per la notte – ma non li vedo da almeno trent’anni. Se sono ancora vivi, di sicuro non sanno>>.  Alla domanda se possono essere un aiuto non risponde, alza le spalle e guarda lontano. L’orizzonte però è a pochi metri, dove è cresciuto. Nel quartiere conoscono tutti la storia di Claudio, ma  nessuno ha voglia di impegnarsi per lui <<ogni tanto mi danno cinque euro – dice con rammarico mentre gli occhi si fanno lucidi – ma non è quello che cerco. Io vorrei lavorare, essere indipendente. La salute non manca>>conclude con un mezzo sorriso che tradisce una richiesta.

Di Federica Bosco

Giornalista professionista e scrittrice, responsabile e coordinatrice del blog Obiettivo Milano

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