È minuta Susy, eppure per quanto piccola la sua energia è immensa. Si avverte immediatamente non appena le stringiamo quelle mani calde piene di vita, o meglio di vite che con la sua forza ha incontrato, aiutato e salvato. Assunta Giani Liuzzi, per tutti Susy ha 85 anni vive a Gratosoglio da sempre. «Da quando giovani famiglie appena formate provenienti dal sud hanno messo radici nelle case popolari», ci racconta mentre i suoi occhi, da un anno senza luce, cercano la voce di Cristina, una volontaria che la accompagna in questo viaggio a ritroso nel tempo. Siamo in via Saponaro, al civico 38 dove ha sede il centro aggregativo che ospita ogni giorno 60 bambini per giocare e socializzare. Uno spazio a piano terra ricco di colori, immagini, e una grande cartina geografica. È un mondo senza confini, come quello che Susy sta cercando di costruire in questo quartiere alla periferia di Milano. Il suo obiettivo da sempre è stare con i bambini perché ci dice «i piccoli sono il nostro futuro, ascoltano molto e non hanno pregiudizi. Se si danno loro gli strumenti, possono fare grandi cose». Lo sa bene Susy che per cinquant’anni ha visto crescere i bambini di Gratosoglio, tra mille difficoltà e la grande minaccia della droga. Una guerra che Susy ha combattuto ad armi impari, ma senza mai arrendersi. «Erano gli anni ’70 – ricorda – io avevo i figli all’asilo, le famiglie erano numerose e gli spazi mancavano. Allora si tenevano le lezioni nei negozi dismessi e le maestre erano poche, troppo poche per seguire tutti quei piccoli monelli che si affacciavano alla vita. Allora per evitare di dover portare i bambini in altre zone, la scuola chiese alle mamme casalinghe una collaborazione. Il mio impegno da quel momento divenne totale, seguivo i miei figli, ma anche i loro amici, a scuola, a casa e al parco. Eravamo una grande comunità che sapeva condividere momenti felici, ma anche affrontare le avversità». Difficoltà che arrivarono presto. «I ragazzi crescevano e arrivati al liceo, a fine anni ’70 inizio anni ’80, esplose come una bomba il problema della droga. L’eroina divenne il nemico da battere, dalla periferia sud di Milano arrivavano i pusher che vendevano le dosi ai nostri ragazzi. Nei parchi si vedevano giovani che si bucavano e qualcuno moriva pure. Un dramma a cui non riuscivamo mettere un freno. In nostro aiuto accorse anche Don Gino Rigoldi».  Con il supporto delle istituzioni Susy si fa grande, convoca riunioni e chiama esperti per parlare alle famiglie. La comunità si stringe intorno a questa donna minuta dal cuore grande che strappa alla droga decine e decine di giovani. «Alcuni ce l’hanno fatta, altri no – ammette con un velo di tristezza – ancora oggi in molti ricordano quei giorni. Sono i fortunati, hanno seguito la terapia di disintossicazione, sono stati in comunità e soprattutto sono stati risparmiati dall’Aids». Se la droga ha fatto molte vittime, il bilancio di oltre 500 morti tra i giovani di Gratosoglio porta la firma dell’Hiv. «Ancora non si sapeva cosa fosse quando da queste parti i primi giovani persero la vita – ricorda Susy -. Quando per la prima volta convocammo le famiglie per spiegare sintomi ed effetti di questa terribile malattia, lo sguardo dei genitori era perso e negli occhi dei ragazzi c’era il terrore. In tanti sono caduti vittime dell’Aids. Intere famiglie sterminate. Un aiuto prezioso allora lo diedero le farmacie, fornivano le siringhe gratis per evitare ai ragazzi di contagiarsi.  Ancora oggi ricordo una giovane coppia con due bambini piccoli. Lui era un tossicodipendente, aveva vinto la sua battaglia in comunità, ma non era riuscito a vincere la guerra. Ha contratto l’Hiv e contagiato moglie e figlio prima di morire. In pochi anni l’Aids si è portato via tutta la famiglia. Solo la più piccola è stata risparmiata dal destino crudele. È rimasta orfana. La sua storia ha commosso tutti, è diventata il simbolo del dolore, ma anche della rinascita». Con l’aiuto di Susy e dei tanti volontari quella bambina è cresciuta, è stata adottata ed oggi è una splendida donna. «Come lei tanti ragazzi di quel tempo hanno trovato la loro strada – riprende il suo racconto questa donna minuta dal cuore immenso -. C’è chi oggi è un avvocato, un medico e anche un politico, io sono felice di vedere che ce l’hanno fatta. Un successo che mi riempie di orgoglio e mi fa andare avanti». Da oltre un anno Susy non vede più. Colpa di una malattia degenerativa agli occhi, ma il suo sguardo è carico di amore che ancora trasmette alle nuove generazioni. «Oggi la droga non si trova più agli angoli della strada, i pusher hanno lasciato i giardini, ma non significa che il problema sia risolto – tiene a puntualizzare – ha solo cambiato pelle. Ci sono le droghe sintetiche che fanno danni irreparabili al cervello, si acquistano su internet, non ci sono più le siringhe nei parchi, ma il dramma è ancora attuale». La battaglia continua dunque… «Occorre alzare il livello di guardia – prosegue Susy – e cercare di fare prevenzione nelle scuole. La comunità è cambiata. Ci sono molte famiglie straniere e questo non aiuta perché ogni comunità tende a rimanere chiusa, a non aprirsi agli altri. Io cerco invece di abbattere i muri e accorciare le distanze perché solo se si è compatti si può vincere la guerra contro la droga». Un lavoro quotidiano che Susy fa con i piccoli, 56 stranieri e 4 italiani che arrivano in via Saponaro per il doposcuola. Un momento ricreativo che Susy e le altre volontarie riescono a trasformare in un momento anche educativo attraverso il gioco. «Cerchiamo di rendere i bambini protagonisti del loro tempo e così qualche mese fa (prima della pandemia e del lockdown) ogni piccolo ha avuto il compito di farsi portavoce di un questionario per la famiglia. Poche domande per capire l’origine, le abitudini e gli usi. Ne è uscito un puzzle variegato. Dodici nazionalità differenti rappresentate, storie complesse, ma suggestive che ogni bambino ha poi condiviso con i compagni. Un viaggio alla scoperta di luoghi lontani che abbiamo poi trasferito su una grande cartina del mondo che abbiamo disegnato e colorato tutti insieme. Un lavoro che ha permesso loro di conoscersi, di capirsi e di familiarizzare. Ciò che purtroppo è ancora difficile da superare è la diffidenza delle famiglie. Non partecipano alla vita sociale, tendono a rimanere chiusi nelle loro comunità. Tutti, tranne una mamma marocchina che ha perfettamente capito lo spirito del lavoro che stiamo facendo ed un giorno mi ha proposto una grande iniziativa: organizzare un pranzo multietnico. Ed è quello che faremo a breve». Lasciamo Susy con un abbraccio. Questa piccola grande donna che in poco meno di due ore ci ha arricchito e dato una grande lezione di vita.

Di Federica Bosco

Giornalista professionista e scrittrice, responsabile e coordinatrice del blog Obiettivo Milano

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