La casa è stata il rifugio durante la pandemia da Covid, un luogo sicuro dove trascorrere le lunghe giornate durante il lockdown tra la paura di un virus silente quanto contagioso e la speranza di ritornare alla vita di sempre. Non per tutti, però, è stata sinonimo di luogo di protezione. Per molte donne è stata una prigione, una condanna alla violenza domestica. In loro soccorso è intervenuto CADMI, il centro di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, che ha rappresentato una luce in fondo al tunnel e una via di fuga dall’inferno.

Manuela, Francesca e Cristina

Sono un gruppo di donne toste, non si sono mai fermate. Hanno lavorato a distanza con tutti i mezzi di supporto possibili pur di esserci sempre quando il telefono squillava e una voce spaventata rispondeva dall’altra parte. Un ruolo difficile, impegnativo che le ha portate ad essere amiche, confidenti e in alcuni casi un po’ psicologhe: «solo in modalità remota però» ci raccontano quando andiamo a conoscerle.

Una storia lunga 35 anni

«Il nostro progetto nasce 35 anni fa con la convinzione che le battaglie di libertà delle donne iniziate negli anni ‘70 non fossero ancora concluse – racconta la presidente Manuela ripercorrendo le tappe principali del viaggio -.  Una volta fondato il centro di accoglienza, l’abbiamo dotato di un telefono, un centralino con un numero (02 55015519) che abbiamo diffuso in tutta la città, con l’obiettivo di creare un primo contatto con donne in difficoltà.  Da subito abbiamo cercato di capire i bisogni e di dare risposte ai loro quesiti. Questo ha innescato un percorso molto importante che va in diverse direzioni: abbiamo uno sportello nelle scuole per formare insegnanti e ragazzi; uno spazio lavoro per far sì che le donne possano arrivare ad una autonomia economica, ma soprattutto diamo un aiuto legale e psicologico.

Una speranza e un futuro per 30 mila donne

Oggi seguiamo 30 mila donne, offriamo soluzioni e, in situazioni di pericolo, anche ospitalità. Abbiamo 7 case ad indirizzo segreto, dove le donne vivono in tranquillità, seguite da consulenti che le aiutano a ricostruire una vita indipendente».

Un lavoro certosino, fatto di piccoli tasselli da incastrare in un grande puzzle che si chiama vita. «Abbiamo accordi con enti e con il Comune di Milano che ci sovvenziona dal 1992 – aggiunge Francesca, avvocato penalista e vicepresidente di CADMI -. Il mio impegno è rivolto principalmente verso le donne della casa-famiglia.  Sono ragazze di ogni età, alcune molto giovani con situazioni economiche difficili, un quarto è straniero. Ad accoglierle sono sempre un avvocato civilista ed uno penalista, in coppia, per non trascurare alcun aspetto della loro vicenda. Dopo una prima valutazione completa, si studia il caso con gli avvocati del centro, tutte donne, e si ipotizza un percorso che viene sottoposto alla vittima. È un lavoro di crescita, ci confrontiamo anche con le professionalità di altri centri antiviolenza per arrivare ad individuare le soluzioni migliori. Ogni caso ha una diversa durata, a seconda delle esigenze. A volte è sufficiente una consulenza, in altri casi serve un percorso legale, che ha i tempi della giustizia. E noi siamo lì a fianco della vittima fino alla fine».

Sicurezza e libertà per 860 donne nel 2020

«La richiesta più urgente è di essere messe in sicurezza – spiega Cristina, front woman del centro – quando arrivano da noi sono spaventate, spesso è in pericolo la loro incolumità fisica ed allora dobbiamo agire in fretta. Se l’emergenza non è così alta, hanno bisogno di un sostegno nel percorso di libertà, che si conquista in vari modi: separazione, richiesta di affidamento dei minori, contributo di mantenimento».

Nel 2020 sono state 860 le richieste giunte a CADMI da donne in difficoltà. «Di queste 420 hanno avviato un percorso di accoglienza, un numero molto alto se si pensa che gli anni precedenti erano in media 110 – analizza Cristina – e ben 330 sono italiane. Tracciare un profilo delle vittime è molto difficile. Non esiste uno stereotipo, i nostri dati dicono per esempio che nell’ultimo anno le vittime dell’effetto lockdown sono donne con un’occupazione in 264 casi, 150 sono senza lavoro, le altre sono casalinghe, pensionate o studentesse. Più della metà ha subito violenza psicologica, nei restanti casi fisica, economica e sessuale. Lo stalking è diventato una triste consuetudine, mentre molti sono i minori vittime di violenza assistita. A perpetrare il danno sono per lo più famigliari, ex coniugi, conviventi, fidanzati o presunti tali, comunque parte della rete famigliare. Solo in quattro casi il carnefice era un estraneo. Un dato, quest’ultimo, che fa il paio con la crescita esponenziale di violenza che si è avuta nei mesi della pandemia. Una convivenza forzata è stata in molti casi scatenante, come una scintilla che ha acceso il fuoco della violenza. Il nostro compito è prima di tutto di attivare l’estintore».

Percorsi personalizzati 

Un meccanismo che ricomincia ad ogni squillo in modo differente. «Non ci sono regole precise di intervento – racconta Cristina – seguiamo dei protocolli, ma ogni storia è a sé. Attraverso una serie di domande cerchiamo di fare il focus sul rischio reale che corre la donna e se ci sono condizioni di pericolo, interveniamo immediatamente portando la vittima in una casa protetta. A quel punto iniziamo un percorso con la donna nel rispetto dell’anonimato. Non è d’obbligo la denuncia. A decidere è sempre la vittima, noi siamo al suo fianco e siamo scudo là dove è necessario. Dal mese di marzo dello scorso anno le richieste di aiuto sono aumentate. Abbiamo percepito molta solitudine tra le nostre donne. Pur di non mancare l’appuntamento con loro abbiamo attivato diverse piattaforme on line, zoom, Skype, Meet, Teams. Abbiamo dialogato con loro, alleviato l’angoscia a chi non poteva uscire. Oggi siamo orgogliose di esserci sempre state anche se questo ha significato un grande dispendio di energia e risorse. La sfida del futuro sarà garantire più risorse economiche al centro e fare prevenzione nelle scuole superiori. Noi vogliamo essere della partita per creare nelle nuove generazioni il culto del rispetto».

By Federica Bosco

Giornalista professionista e scrittrice, responsabile e coordinatrice del blog Obiettivo Milano

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