Affetta da Long Covid, Erika oggi ha gravi problemi fisici e neuro cognitivi che non le consentono di lavorare. Ad agosto però l’Inps le ha comunicato che non avrà più il reddito di cittadinanza. Lei lancia un appello  per avere diritto alla pensione di invalidità e alle cure    

Erika ha 46 anni e da tre anni vive un incubo senza fine. Colombiana di Bogotà, ma in Italia da oltre 25 anni, prima della pandemia si occupava di organizzazione di eventi e ufficio stampa in una società di e-commerce e finanza. Quando ha incontrato sul suo cammino il virus della Sars CoV-2 tutto è cambiato.

Marzo 2020 il contagio

«Era marzo 2020 – racconta Erika in una Milano ancora deserta  -, ero appena stata assunta in prova da una multinazionale tedesca e svolgevo il mio lavoro con grande entusiasmo. Quando è scoppiata la pandemia per i primi mesi ho continuato a lavorare in presenza come richiesto dall’azienda. In ufficio però mancavano i divisori tra le postazioni, c’era molta promiscuità con l’uso  dei computer e dei microfoni, nei bagni non c’erano gel e saponi per lavarsi le mani e ci dicevano di rimanere in ufficio con il foulard sul viso perché mancavano le mascherine», racconta tutto d’un fiato anche se di tanto in tanto le parole sfuggono ed Erika deve interrompere il discorso per rimettere insieme le idee.

La malattia: positiva per 120 giorni

Provo ad aiutarla… Niente smart working, almeno inizialmente, e nessuna protezione per evitare il contagio. Erika nel mese di marzo inizia a stare male, ma non riesce a comunicare con il medico di medicina generale e neppure ad ottenere una diagnosi certa. «Per le prime due settimane ho continuato a lavorare nella speranza di stare meglio, poi sono rimasta a casa in vigile attesa» dice. Dopo tre settimane, la donna riesce finalmente a mettersi in contatto con il medico di medicina generale che le prescrive la vitamina C, ma non il tampone. «Il mio medico non ha capito che ero stata contagiata finché sono stata portata in ospedale d’urgenza in fin di vita». Da quel momento inizia per la donna un calvario. Tra ospedale  e Covid Hotel, Erika rimane in isolamento per oltre 90 giorni. Nonostante le cure, infatti, non riesce a negativizzarsi.

Addio al lavoro

L’aver contratto il Covid in una forma grave oltre ad avere conseguenze sul fisico di Erika compromette irrimediabilmente il rapporto di lavoro della donna che si trova dopo quattro mesi e mezzo di malattia senza alcuna protezione e perde il suo impiego. «Il virus ha minato il mio corpo, ma anche l’isolamento così prolungato ha generato danni fisici e mentali – fa notare -. Infatti, oggi devo fare i conti con una forte depressione oltre a tutta una serie di problemi di salute che il virus mi ha lasciato in eredità».

Long Covid

Si chiama sindrome da Long Covid, Erika l’ha scoperto a sue spese nell’autunno 2020. «Dopo quattro mesi e mezzo di malattia, quando finalmente mi sono negativizzata, pensavo di poter riprendere in mano la mia vita, invece il virus che era entrato nel mio corpo non mi ha più abbandonato. A distanza di pochi mesi mi hanno diagnosticato il Long Covid con tutta una serie di disturbi fisici e mentali. Oggi soffro di diverse patologie: perdita di memoria, dolore cronico, nebbia cognitiva, si ipotizza anche encefalopatia mialgica».

Un virus invalidante

Patologie che Erika neppure immaginava potessero esistere e che generano in lei acufene, vertigini, sangue alle gengive, incontinenza, alopecia, sindrome premestruale e soprattutto abbassamento delle difese immunitarie. «Un quadro clinico che per me significa dolori, stanchezza e impossibilità a svolgere alcun tipo di lavoro. In passato ho fatto il traduttore simultaneo per delle scuole, oggi non sarei in grado di fare più nulla per un periodo di tempo superiore ai quindici minuti consecutivi. Tutto ciò è estremamente invalidante e deprimente», sottolinea la donna che da tre anni sta cercando disperatamente un ospedale o un ambulatorio Long Covid in grado di aiutarla ed è tra i soci fondatori dell’Associazione Italiana Long Covid.

Il Sistema Sanitario Nazionale non basta

Pur di stare meglio ha bussato alle porte di tutti gli ospedali di Milano, ha contattato specialisti del Fatebenefratelli Sacco, del Niguarda, del Don Gnocchi fino al San Raffaele, ma nessuno sembra avere una cura efficace per i suoi disturbi. «Avrei bisogno di un team di specialisti per arrivare ad una diagnosi certa e ad una terapia efficace, invece sono entrata in alcuni studi sperimentali, ma dopo alcune sedute il Sistema Sanitario Nazionale non copre più le spese».

Telemedicina, ma a pagamento

«Dovrei acquistare dei macchinari, fare telemedicina, ma io non sono in condizioni economiche tali da potermi permettere terapie costose», sottolinea Erika, che aggiunge: «Il percorso che doveva essere di 30 sedute al Sacco è stato chiuso dopo 12. Mi hanno fatto un’impegnativa per essere richiamata, ma a distanza di due anni non ho più ricevuto alcuna comunicazione. E le liste d’attesa sono chiuse. Mi hanno indirizzato al Don Gnocchi per un percorso di psicoterapia, ma in due anni non sono mai riuscita a fissare un appuntamento con il SSN. Allora mi sono rivolta al San Raffaele, dove mi hanno proposto una cura a base di cannabis per attutire il dolore e sedute di riabilitazione cognitiva in regime privato al costo di 53 euro l’una. Io però non sono in condizioni di sopportare quella spesa».

Stop al reddito di cittadinanza

Ad aggravare ancor più la situazione di Erika, ad agosto è arrivata la comunicazione della sospensione del reddito di cittadinanza da parte dell’Inps. Lei a 46 anni, senza figli o anziani da accudire, è inserita tra gli occupabili e dunque in attesa  di ricevere un’offerta lavorativa deve fare dei corsi di formazione per riposizionarsi nel mercato del lavoro. Nel frattempo, riceverà un sussidio di 350 euro per 12 mesi. «Se perdo il reddito di cittadinanza non avrò modo di curarmi», fa notare la donna che non ha intenzione di arrendersi.

L’appello di Erika: «Cerco un avvocato per avere il diritto alle cure»

Nonostante le difficoltà Erika cerca di non abbattersi, ad aiutarla ci sono molte associazioni e la Caritas, ma non basta. «Dal comune ho ricevuto il sostegno affitto che da due anni non riesco a pagare, poi la Chiesa lo scorso inverno mi ha aiutata ad avere una caldaia nuova perché la mia si era rotta. Cosa mi servirebbe? Il Covid dovrebbe essere riconosciuto come malattia da lavoro, dovrei ricevere un’assistenza a domicilio e una pensione di invalidità». Per avviare le pratiche Erika avrebbe bisogno di un aiuto, ma non riesce a trovarlo ed ora dovrà vivere senza il paracadute rappresentato dal reddito di cittadinanza.

Senza reddito di cittadinanza nessuna cura

«Il Long Covid è un contenitore di diversi tipi di malattie, questo crea difficoltoso il percorso di riconoscimento di invalidità all’Inps – ammette – . Avrei bisogno anche di un sostegno neuro cognitivo  su misura per me, ma il Sistema Sanitario Nazionale ad oggi non mi garantisce una visita e una presa in carico. Dovrei rivolgermi al privato accreditato per poi chiedere il rimborso al Sistema Sanitario Nazionale secondo quanto previsto per legge, ma nessuno mi aiuta in questo percorso. Ho bisogno di uno studio legale che, in patrocinio gratuito, mi assista, ma questo è un altro traguardo  che oggi sembra impossibile da raggiungere». La chiacchierata con Erika si concluse con la promessa di fare da cassa di risonanza per la sua richiesta di aiuto. «Sono sofferente, ho perso il reddito di cittadinanza, ma non ha intenzione di arrendermi».

 

 

Di Federica Bosco

Giornalista professionista e scrittrice, responsabile e coordinatrice del blog Obiettivo Milano

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